Pirandello e Beckett in un' inedita regia di De Monticelli

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Venerdì, 10 Gennaio, 2014


Le assi del palcoscenico divengono una distesa, originariamente un deserto, illuminato da una luce abbagliante, che diviene impietosa.

In base ai precisi dettami dell’autore, Samuel Beckett, in questo dramma viene utilizzata, per la prima volta, la luce bianca: la stessa luce che tornerà nel suo “Giorni felici” a torturare la logorroica signora Winnie, conficcata -prima fino alla vita e poi fino al collo- in una fossa, mentre s’ostina a dichiararsi felice di tale esistenza.

Sto riflettendo su quest’aspetto, quando il protagonista carambola rovinosamente sul palco.  

E’ la vita – mi dico, parafrasando Beckett - anche quando si tratta della peggiore delle condizioni possibili; è sufficiente la prima, di tante cadute, per creare un’empatia che, in crescendo, accompagnerà ogni minuto di questo “Atto senza parole”.  

Un uomo in scena, comunica solamente attraverso il corpo. Cade con perizia, soffre con perizia, suda, si rialza, sorride, si dispera e noi godiamo di un teatro che rinuncia alla parola, atto perfetto di decostruzione del linguaggio, questione che tanto coinvolse Beckett, quando trovandosi a Parigi ebbe a che fare con mimi del calibro di Marceau, Decroux e, non ultimo, Mendel, che lo incitò a alla stesura di un pezzo che avesse tali caratteristiche. Plauso a De Monticelli per aver riproposto questa “perla” del 1956, buttando letteralmente sulla scena il giovane mimo Edoardo Demontis, reduce da “Untitled I will be there when you die” di Alessandro Sciarroni (Premio Rete Critica agli Ubu).  

La sete incita l’uomo ad affinare l’ingegno e cercare di raggiungere ed afferrare una brocca d’acqua appesa al ramo alto di un albero che sarà figura fondamentale in entrambi gli atti, snocciolati  - giustamente-  senza pause e consecutivamente.

Un fischietto comanda i movimenti dell’assetato: grandi cubi di polistirolo vengono ribaltati, sovrapposti, spostati più volte per raggiungere la brocca. Invano. E’ vano anche il tentativo di impiccagione, esattamente come in Aspettando Godot: l’uomo si abbandona sul pavimento, sconfitto e, ora che l’acqua è vicinissima e raggiungibile non la prende.

Il critico Cesare Segre, nel  saggio “La funzione del linguaggio nell’Act sans paroles” (Bulzoni 1997) giunge a queste conclusioni: “La crudeltà del trattamento inflitto al personaggio sta proprio nell’averne stimolato l’intelligenza per poi reprimerne la volontà”.

E come dargli torto e non intravedere lo stesso cruento trattamento che oggi Stato e società riservano a molti di noi, costretti ad arrabattarci continuamente per un goccio di lavoro, di stabilità, per uno straccio di servizi sociali di cui non godiamo e forse mai godremo?

Sudo per solidarietà e, con rabbia seguo quella sconfitta, i gesti maniacali del taglio delle unghie con grandi forbici, il ripiegamento di un grande fazzoletto a quadri ridotto ad un quadratino, e ogni minima tensione muscolare del bravo Demontis, che riesce a mantenere alta la concentrazione del pubblico, nonostante l’insofferenza derivata dopo i primi di una lunga sequenza di insuccessi, all’interno di questo breve atto.

Ogni orpello scenografico viene riportato in alto, da dove era giunto, in sadico “apparente” soccorso e cala il buio, mentre l’uomo esce di scena.

In questo stesso istante Beckett passa il testimone a Luigi Pirandello e, i primi gesti dei personaggi sono ancora intimati dal fischietto. Un effetto straniante ma piacevole, un’accoppiata a cui non avevo pensato: in poco tempo le parole riempiono l’aria, quasi la saturano.

Ci spiega il regista:  “ Un che di fantastico lega assieme, come un fil rouge, i due piccoli capolavori di questi due pilastri della drammaturgia e della cultura del ‘900 (entrambi premi Nobel): quel gorgogliare di stupefatto umorismo attraverso cui prende forma la metafisica parabola dell’esistenza. E se, nella pantomima di Beckett riecheggia, in un susseguirsi di comicissimi inciampi e umanissimi impedimenti, un che di chapliniano (o forse qualcosa che ricorda Buster Keaton, che non a caso fu l’interprete dell’unico film di Beckett), nel “mistero profano” di Pirandello siamo oltre la soglia della vita, all’uscita di un cimitero dove i personaggi sono in realtà “apparenze” appena fuoriuscite dalla loro esistenza terrena; in attesa di una dissoluzione che non tarderà a venire, non appena ogni residuo, ogni conto in sospeso con la loro vita passata si sarà esaurito.”

“All’uscita” è dunque un mistero profano, un atto unico pirandelliano, che fa proseguire la vita “per un attimo ancora oltre il suo termine, ripercorrendola tutta”.  L'apparenza dell'Uomo grasso siede su una panca ai piedi del grande albero, con le mani appoggiate al bastone e sulle mani poggia il mento. Qui avviene l’incontro con l’apparenza del Filosofo, che fin dal principio espone ragionamenti, mentre l’uomo grasso lo invita a smettere, in quanto fatica inutile:

“Che consolazione volete che mi dia codesto postumo esercizio della vostra ragione? Il filosofo: Postumo? Ma che postumo! Io seguito a ragionare, come voi a esser grasso, caro mio. E per il solo fatto che io e voi siamo ancora qui, seguito a vedere in me e in voi due vane forme della ragione. Non ve ne sentite consolare?L’uomo grasso: Se sapeste come ne sono mortificato!”

Ne deriva un dialogo serrato, per argomento e velocità d’espressione, che quasi ci fa arrancare per farsi seguire e ci tiene seduti con l’orecchio e la mente protesa verso il palcoscenico: si discorre dell’inutilità delle tombe per i morti, quanto della loro utilità per i vivi, piuttosto che dell’approvare o meno la maestosità di certe cattedrali, cui – non sempre- corrispondono pratiche lodevoli di fede. Paolo Meloni è l’apparenza di un uomo grasso, mentre Luigi Tontoranelli è l’apparenza di un filosofo: arrampicandosi con cura estrema sui  dialoghi - con bravura- reggono e preparano la scena per l’arrivo di una terza apparenza. L’apparenza di una moglie adultera (moglie dell’uomo grasso) uccisa da un amante sul quale, per troppo tempo, ha scaricato rabbia e risentimenti. Una Ophelia novecentesca e sui generis, scalza, con un seno in vista insanguinato, ride isterica e scomposta: buona prova per Isella Orchis, sunto di molte donne pirandelliane.

La donna uccisa: “Ah, qua... Tu? oh Dio... com'è? No, no... Ma come! Sono di nuovo con te? Ah ah ah ah ah!” L’uomo grasso: “Non ridere! Non ridere più così!La donna uccisa: Che imbecille! M'ha rimandata a te! E verrà anche lui, sai? S'è ferito a morte, dopo aver ferito me”.

Come per l’uomo senza parole si ripete una forma estrema di ricerca: in questo caso Pirandello invita i suoi personaggi a liberarsi dai vincoli dei limiti del pensiero e ad interrompere la rabbiosa costruzione filosofica, che – al pari dei cubi di polistirolo e degli sforzi fisici- non li condurrà alla salvezza, all’abbandono delle vanità terrene.

Continua De Monticelli: “Pirandello/Beckett è uno spettacolo che mette insieme diversi linguaggi scenici: la pantomima, appunto (il folgorante Atto senza parole beckettiano), il pezzo teatrale (quel fulmineo e fulminante atto pirandelliano che è All’uscita), e infine, il teatro di figura, con l’irruzione di una serie di personaggi di quel “popolo di legno” che da sempre abita le zone più fantastiche e fantasmatiche del palcoscenico: “arsenale delle apparizioni”, la chiamerebbe Pirandello.”

Sono le figure di legno intagliate dalla Maestra burattinaia Donatella Pau (Is Mascareddas) volute dal regista in chiusura di spettacolo a rappresentare un contadino, una contadina, un vecchio asino che reca su di se un gran fascio d’erba ed una bambina: come dice Pirandello, dei personaggi sono forse quelli meno reali, ma i più veri, “vivi e legati alla terra”.

Ottima intuizione questa di portare in scena le figure di legno intagliate (molte altre sono state esposte nel foyer di sala, con grande afflusso di visitatori) e non da meno la scelta di collaborare – ancora una volta- con gli studenti universitari della facoltà di Architettura, curatori del progetto scenico.

Unico neo relativo al passaggio delle figure intagliate è  stata la minore chiarezza nei dialoghi e la difficoltà di associare le battute ai relativi personaggi, con immediatezza. Stesso problema è sovvenuto dovendo associare voce e battute al bambino che mangia la melagrana, incontrato nel peregrinare dell'adultera nella nuova dimensione post terrena. Due scene che avrei scandito con più efficacia, o meglio, con più lentezza in modo da dare al pubblico - anche a chi non conosceva trama ed opera-  la possibilità di riprendersi dai dialoghi serrati e concentrarsi su questi nuovi quadri, all'interno dell'atto.

In scena resta l’albero di legno dai rami spogli e mobili: “il mimo – conclude De Monticelli – dopo aver condotto la sua azione senza parole, finisce per spegnersi in un attesa senza più azione; mentre il Filosofo pirandelliano, rimasto solo, continua, imperterrito, a intrecciare il suo filo di parole.”

All'uscita il mio pensiero torna alla signora Winnie, ancora impantanata ma ancora profondamente attaccata a quell’esistenza: “E’ la vita – mi ripeto- anche quando si tratta della peggiore delle condizioni possibili.

 

 (Cinzia Crobu)

 

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